Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge interviene sulla delicata materia delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e si pone come obiettivo quello di contemperare le necessità investigative, la libertà di stampa, il diritto-dovere di informare e di essere informati, e il diritto alla privacy dei cittadini. Se, infatti, è incontestabile l'utilità di tale mezzo di ricerca della prova, è altrettanto incontestabile che l'uso di tale delicato strumento di indagine debba avvenire con la massima cautela. L'articolo 15 della Costituzione sancisce l'inviolabilità della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione e prevede espressamente che «La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Proprio per conciliare tali princìpi, il codice di procedura penale ha previsto che le intercettazioni (telefoniche, ambientali, eccetera) possano essere disposte - salvo i casi d'urgenza, e allorché vi sia fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini - da un giudice, in presenza di «gravi indizi di reato» e allorché assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini (deroghe sono state introdotte dal decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, per reati di particolare gravità).

 

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Il legislatore, dunque, ha ritenuto possibile l'intercettazione di conversazioni private solo in presenza di indizi gravi, di una situazione di «assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini», ed esclusivamente in procedimenti per reati di particolare gravità; ha inoltre previsto espressamente che il provvedimento autorizzativo fosse motivato.
      Malgrado le precise e tassative disposizioni codicistiche (articolo 266 e seguenti del codice di procedura penale), si è instaurata però una prassi che contrasta con la lettera e la ratio della legge (anche senza violazioni tali da determinare nullità o inutilizzabilità): non sono infrequenti, infatti, i provvedimenti autorizzativi, o di proroga, motivati con formule di stile ovvero con motivazioni tautologiche o generiche. I dati più recenti confermano che tale strumento di indagine, da «eccezionale», si è trasformato in «ordinario».
      Secondo l'Eurispes, nel decennio 1994-2004, in Italia, sarebbero state intercettate circa 30 milioni di persone, con una spesa che ha toccato i 300 milioni di euro; nell'ultimo biennio le cifre del numero delle intercettazioni e della relativa spesa sono addirittura aumentate, come le recenti vicende di cronaca testimoniano. Considerati i tempi medi delle intercettazioni (circa 45 giorni) ogni anno sarebbero intercettate oltre un milione e mezzo di persone. Si rende necessario, quindi, e non più procrastinabile, un limitato intervento legislativo che, senza incidere sulle effettive necessità investigative, tuteli anche la privacy dei singoli, soprattutto se non indagati o allorché le intercettazioni riguardino comunicazioni irrilevanti per le indagini e del tutto personali. È indispensabile prevedere una disciplina più rigorosa non solo in relazione alla motivazione del provvedimento che dispone le intercettazioni, ma anche in relazione alla successiva attività di utilizzazione processuale delle conversazioni intercettate, in modo che sia ridotto al minimo il sacrificio del diritto alla riservatezza (che non viene meno per il solo fatto che l'intercettazione sia stata legittimamente autorizzata) e, soprattutto, che sia limitato il più possibile il rischio della loro divulgazione e pubblicazione, quando coperte dal segreto o irrilevanti ai fini di una corretta informazione. Il sistema vigente, infatti, non si è rivelato idoneo a tutelare il diritto alla riservatezza dei cittadini allorché questo sia prevalente rispetto al diritto-dovere di informare (soprattutto con riferimento ai terzi estranei al processo): ciò in quanto il meccanismo procedimentale rende conoscibili alle parti - e non solo a loro - tutte le conversazioni intercettate e riportate sommariamente nei «brogliacci» della polizia giudiziaria, mancando - come noto - una preventiva selezione della documentazione rilevante.
      Con il deposito presso la segreteria del pubblico ministero, ai sensi dell'articolo 268, comma 4, del codice di procedura penale, ovvero nei casi in cui è applicata una misura custodiale, le intercettazioni perdono il carattere della segretezza (articolo 329, comma 1, del codice di procedura penale). Per quanto concerne la pubblicazione, l'articolo 114 del codice di procedura penale prevede, da un lato, che sia vietata «la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare» (il relativo reato è oblabile con il pagamento di 127 euro); ma, dall'altro, consente «la pubblicazione del contenuto di atti non più coperti dal segreto» (articolo 114, commi 2 e 7, del codice di procedura penale).
      Nella presente proposta di legge non sono state modificate le condizioni che legittimano il ricorso alle intercettazioni, anche se si rende più «stringente» l'obbligo di motivazione del provvedimento autorizzativo: la disciplina vigente appare sufficientemente rigorosa nell'individuare i limiti, che possono essere ricondotti, come quelli previsti dalle misure cautelari, ai princìpi di «proporzionalità e adeguatezza». L'intercettazione, infatti, deve costituire l'unico mezzo di prova adeguato a soddisfare l'esigenza investigativa in una situazione in cui l'indagine non possa essere diversamente sviluppata. Si è ritenuto invece necessario intervenire
 

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in relazione alla riservatezza del terzo e alla pubblicazione di comunicazioni intercettate dei soggetti, non indagati né coinvolti nelle indagini, ma di cui pure siano stati intercettati i colloqui, attraverso un intervento diretto sul procedimento delineato dall'articolo 268 del codice di procedura penale. La sequenza procedimentale del deposito e della secretazione del materiale irrilevante viene modificata, attribuendo prima al pubblico ministero, e poi al giudice, il potere di selezionare le intercettazioni da acquisire e di disporre la secretazione di quelle ritenute irrilevanti (si è preferito proporre la secretazione delle intercettazioni irrilevanti, e non la distruzione, in quanto non è raro il caso di intercettazioni che possono apparire irrilevanti in una determinata fase delle indagini e che, successivamente, si dimostrano decisive per l'innocenza o la colpevolezza dell'imputato). La selezione preventiva della documentazione rilevante riduce i rischi di divulgazione dei contenuti delle intercettazioni, senza abbassare il livello di tutela del diritto di difesa dell'imputato, al quale viene riconosciuta la facoltà di prendere cognizione della documentazione che il pubblico ministero ha ritenuto non rilevante. La nuova disciplina si caratterizza, inoltre, per l'istituzione di un apposito archivio riservato nel quale il pubblico ministero deve custodire i verbali e le registrazioni, l'accesso al quale è consentito ai difensori delle parti solo per la verifica della completezza del materiale acquisito e per la eventuale richiesta di integrazione al giudice. La documentazione è custodita nell'archivio riservato fino alla decisione non più soggetta a impugnazioni.
      La rivelazione delle conversazioni intercettate ma non acquisite, e che quindi dovrebbero rimanere segrete, è punita in maniera autonoma al pari dei delitti contro la inviolabilità dei segreti che attengono alla sfera privata (articoli 616 e seguenti del codice penale). La presente proposta di legge introduce nel nostro ordinamento una nuova fattispecie penale che di fatto amplia le ipotesi di lesione del diritto alla riservatezza in conseguenza di condotte che si estrinsecano nella indebita rivelazione del contenuto delle registrazioni ritenute irrilevanti. La proposta di legge interviene poi in materia di «pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale» (articolo 684 del codice penale): una norma posta a tutela non solo del diritto alla riservatezza dei cittadini, ma anche a tutela delle indagini e dell'accertamento della verità. Chi pubblica arbitrariamente atti di un procedimento penale è attualmente punito con l'arresto fino a trenta giorni o l'ammenda da 51 a 258 euro (reato che si può estinguere pagando un'oblazione di 127 euro). La presente proposta di legge, rispetto alla quale si auspica un ampio e approfondito confronto in Parlamento e nel Paese, intende distinguere, rispetto alla pubblicazione, tra atti processuali e atti di indagine: mentre il contenuto dei primi (ad esempio ordinanza di custodia cautelare, provvedimenti del tribunale del riesame, eccetera) è pubblicabile allorché non più coperto dal segreto, gli atti di indagine, e il loro contenuto (a meno che non sia riportato in altri atti processuali), non sono pubblicabili fino al termine delle indagini preliminari; ciò a tutela delle indagini, degli indagati e dei terzi estranei al procedimento penale. Si è ritenuto di proporre questa distinzione, che deve essere evidentemente approfondita, in quanto si ritiene che, allorché venga data la notizia di un provvedimento cautelare, o di altri provvedimenti analoghi, rientri nel diritto di informare e di essere informati conoscerne le motivazioni: in tali casi, gli organi di informazione ben possono (o, meglio, dovrebbero) riportare, nell'ambito di una corretta informazione, anche le considerazioni dell'indagato e/o dei suoi difensori. Diverso, evidentemente, è il caso della pubblicazione del contenuto di indagini (testimonianza, intercettazioni, ricognizioni, eccetera) prima che le stesse siano completate, in conseguenza della quale si rischierebbe non solo di fornire una informazione parziale, ma anche di
 

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incidere negativamente sulla possibilità di accertare singole responsabilità. Proprio per questo si propone di modificare non solo l'articolo 114 del codice di procedura penale, ma anche l'articolo 684 del codice penale (pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale). Si è ritenuto di non prevedere sanzioni, neppure di carattere pecuniario (e, quindi, tanto meno detentivo) per il giornalista, lasciando ogni valutazione di carattere deontologico al consiglio dell'ordine, e di depenalizzare il reato, con significative sanzioni amministrative pecuniarie, rapportate alla diffusione del mezzo di informazione e alla gravità del fatto, per la proprietà della testata. Competente a irrogare tale sanzione dovrebbe essere il Garante per la protezione dei dati personali.
 

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